(3 gennaio 2010)

Ci allontaniamo dal grande e luminoso studio-bottega di ENZO ARCHETTI in uno stato di compresa euforia: abbiamo assistito ad uno spettacolo del tutto gratificante, che ci ha allietato la vista e suscitato emozioni positive. Lo rivediamo con gli occhi della mente. Le tantissime opere, spesso di grandi dimensioni, sovrapposte alle lunghe pareti, richiedono un ritmico lavoro di trasferimento, al fine di essere visionate. Si susseguono e ci aspirano in una ansiosa aspettativa, che, ad ogni passaggio, rinnova la meraviglia e lo stupore. Il nostro “star bene” lì, in quel contesto, si accentua man mano la comunicazione avanza ed il messaggio dell’artista si esplicita.

ENZO ARCHETTI ha l’occasione di “traslocare” le sue opere, di rivedere i suoi passaggi, di parlare: lui così schivo e così riservato! E’ sollecitato dalla situazione empatica, che si è istaurata e racconta, racconta … Ripassa le sue ricerche, ci conferma sull’interpretazione della comunicazione e ci trascina nel vortice dei segni, nella fantasmagoria delle cromie. Emerge immediatamente che, pur nella preziosità dell’evoluzione artistica, il tratto di ENZO ARCHETTI è inconfondibile.

I luminosi colori, raffinati negli accostamenti , sia che accompagnino la figura, sia che si spandano nella manifestazione del pensiero e propongano discorsi, che dicono di scelte, riecheggiano sempre messaggi sereni. Attraverso gli occhi, invasi d’azzurro, delle metafisiche donne, che simboleggiano l’umanità, ENZO ARCHETTI parla di capacità latenti, che giacciono in ciascun essere umano e sono in trepida attesa di essere suscitate. E allora, i grandi cappelli, che ombreggiano i volti, sono la metafora del velo, che cela e trattiene le meraviglie del cuore e della mente, i cui doni segreti, allegoricamente espressi nei fastosi copricapi e nei ricercati ornamenti, come opulente cornucopie circondano i volti delle eteree, ma sapientemente plastiche figure,che, nella lievità, per maestria tecnica , hanno consistenza.

Damaschi rari e tappeti pregiati entrano nelle tele e concorrono alla realizzazione dell’opera. Hanno provenienze diverse: proclamano l’universalità dell’arte, che non ha confini quando valorizza l’uomo per l’esperto prodotto del suo ingegno creativo. E l’uomo, unico ed irripetibile, si interroga sul suo essere nel mondo, sul significato della sua vita, ed intensifica la volontà di fare, per lasciare, secondo le sue possibilità, una traccia del suo viaggio terreno. Vuole “aprire” quelle finestrelle chiuse, che suggellano monili aderenti ai colli delle sue Muse, scrigni preziosi da esplorare, o che emergono nel vuoto in attesa di essere spalancate: sembrano occhieggiare al fruitore dell’opera, contagiando smania di produrre, volontà di bloccare lacerazioni, propositi di saldare fratture e desiderio di scrivere qualificanti percorsi di vita su intonse pagine. Nell’universo senza fine, disseminato di galassie inesplorate, l’astratta e sinuosa linea, che rimanda all’uomo, si adagia nel suo frammento come in una culla. Da lì mira il sovrastante astro, riflesso d’infinito, e contempla i suoi progetti futuri negli allineati aquiloni fluttuanti nell’aria. C’è costruttivo ottimismo, c’è adesione al Creato, c’è armonia.

E l’armonia, quell’armonia che vince di mille secoli il silenzio, ci seduce, ci entusiasma, ci convince completamente. Tutto questo suggerisce, secondo la nostra lettura, la pittura di ENZO ARCHETTI.

Marta Mai

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