(febbraio 2019)

Enzo Archetti non dipinge, viaggia; non colora, immagina; non descrive, pensa. Porge i pensieri nella loro forma visibile, quasi plastica e convoca gli elementi della scena del mondo invitandoli ad essere se stessi. Senza infingimenti e senza sciocche vergogne. Archetti non spiega, narra. E lo fa seguendo il filo, un filo che viene da un ‘chissà dove’ che ha un sapore ancestrale e che è proteso verso un ‘chissà dove’ dal sapore simile a quello del destino.

Nelle tele di Enzo vivono volti che sono ricordi, memorie che sono visi, luci che sono abbagli, dettagli che sono spie.

Vive gente che percorre il tragitto, dal chissà dove al chissà dove, seguendo la propria ombra come fosse un lascito dell’infanzia o un presagio di esodo. Ecco il prodigio del rovesciamento: lo specchio che si fa realtà e la concretezza che diventa appendice, simulacro, riduzione, finzione. Ecco la verità dell’ombra, ecco la vertigine dell’apparenza. E quasi dappertutto ecco il filo. Del discorso, della logica, del tempo appunto indomito, dei panni stesi e allegri e di quelli assenti, del funambolo che si inventa l’equilibrio sul mondo di elementi che sgomitano per essere protagonisti. O semplicemente per essere riconosciuti. O, ancor più semplicemente, per essere.

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